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Rassegna Stampa - L'Argomento di Oggi - dal 2010-07-20 ad oggi 2010-07-20 Sintesi (Più sotto trovate gli articoli)

La Torre Velasca in vendita, è il (vice)simbolo che meglio racconta il romanzo di Milano

Ha ventisei piani e centosei metri di altezza, in una città piuttosto piatta, eppure, in qualche modo, la sua presenza è sempre rimasta un rigo sotto. La Torre Velasca di Milano, adesso messa in vendita, è forse il miglior simbolo monumentale del dopoguerra ambrosiano. Per la verità, si tratta di un simbolo in seconda, di un vicesimbolo. Pur schiacciata dall'altezza, dalla notorietà, dal ruolo istituzionale, dall'agilità di linee del contemporaneo grattacielo Pirelli, la Velasca è però, proprio per questa sua rinuncia al primo gradino del podio architettonico, un testimone più genuino dell'ultimo mezzo secolo di una città che notoriamente custodisce nei cortili i suoi scorci più belli, piuttosto che esibirli di primo acchito.

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Frutto di un periodo, la fine degli anni Cinquanta, in cui si era riavviata nel capoluogo lombardo una robusta circolazione di "danee", la Torre, piantata nel cuore del centro storico sciupato dai bombardamenti, mantiene un qual certo pudico senso del limite di impronta meneghina. Verticale sì, in un afflato da Nuova York padana, ma in definitiva terragna, con il suo largo corpaccione a pianta larga e il suo colorito passatista. Alta sì, ma, al contrario del più svettante Pirellone, rispettosa della celeste collocazione della vicina Madonnina, che continua ad allungare la testa giusto un paio di metri più in su. Pezzo pregiato del disegno edilizio di quegli anni, ma con i suoi autori celati dalla criptica sigla BBPR, in cui soltanto i cultori saranno riconoscere i nomi degli architetti Banfi, Barbiano di Belgiojoso, Peressutti e Rogers. Qualche anno fa, anche Aldo Nove, nel suo "Milano non è Milano", incappò nella diffusa ma erronea convinzione secondo cui la "P" della sigla indica Giò Ponti, una svista che in una scorticatura del libro apparsa sul Foglio Camillo Langone definì "fragoroso raglio".

Simbolo del boom, location riconoscibile per il cinema e la letteratura, la Torre Velasca non ha però vero spessore drammatico.

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La Torre Velasca in vendita, è il (vice)simbolo che meglio racconta il romanzo di Milano

di Guido De FranceschiCronologia articolo20 luglio 2010Commenti (1)

Questo articolo è stato pubblicato il 20 luglio 2010 alle ore 16:43.

Ha ventisei piani e centosei metri di altezza, in una città piuttosto piatta, eppure, in qualche modo, la sua presenza è sempre rimasta un rigo sotto. La Torre Velasca di Milano, adesso messa in vendita, è forse il miglior simbolo monumentale del dopoguerra ambrosiano. Per la verità, si tratta di un simbolo in seconda, di un vicesimbolo. Pur schiacciata dall'altezza, dalla notorietà, dal ruolo istituzionale, dall'agilità di linee del contemporaneo grattacielo Pirelli, la Velasca è però, proprio per questa sua rinuncia al primo gradino del podio architettonico, un testimone più genuino dell'ultimo mezzo secolo di una città che notoriamente custodisce nei cortili i suoi scorci più belli, piuttosto che esibirli di primo acchito.

Frutto di un periodo, la fine degli anni Cinquanta, in cui si era riavviata nel capoluogo lombardo una robusta circolazione di "danee", la Torre, piantata nel cuore del centro storico sciupato dai bombardamenti, mantiene un qual certo pudico senso del limite di impronta meneghina. Verticale sì, in un afflato da Nuova York padana, ma in definitiva terragna, con il suo largo corpaccione a pianta larga e il suo colorito passatista. Alta sì, ma, al contrario del più svettante Pirellone, rispettosa della celeste collocazione della vicina Madonnina, che continua ad allungare la testa giusto un paio di metri più in su. Pezzo pregiato del disegno edilizio di quegli anni, ma con i suoi autori celati dalla criptica sigla BBPR, in cui soltanto i cultori saranno riconoscere i nomi degli architetti Banfi, Barbiano di Belgiojoso, Peressutti e Rogers. Qualche anno fa, anche Aldo Nove, nel suo "Milano non è Milano", incappò nella diffusa ma erronea convinzione secondo cui la "P" della sigla indica Giò Ponti, una svista che in una scorticatura del libro apparsa sul Foglio Camillo Langone definì "fragoroso raglio".

Simbolo del boom, location riconoscibile per il cinema e la letteratura, la Torre Velasca non ha però vero spessore drammatico.

Buona come luogo-cult in cui ospitare una cassaforte da scassinare nell'amarcordiano e innocuo romanzo "Neppure un rigo in cronaca" di Gino & Michele, la Torre viene spodestata dal Pirellone quando il gioco letterario si fa più serio. Infatti, quando nel 1964 il regista Carlo Lizzani tradusse in pellicola "La vita agra" di Luciano Bianciardi, per dare consistenza visiva al "torracchione" della Montecatini che il protagonista vuol far saltare in aria per vendicare una strage di minatori maremmani, ecco che la macchina da presa sceglie il grattacielo Pirelli progettato, quello sì, da Giò Ponti.

Quando invece il racconto prende una piega più sorridente nel pur mordace ritratto della società del boom, ecco che il set cinematografico si installa alla Velasca. Pochi anni prima de "La vita agra", infatti, Alberto Sordi e Franca Valeri, protagonisti de "Il vedovo" di Dino Risi, hanno la propria residenza coniugale proprio nella Torre. E l'edificio appare come quinta scenografica anche in "Milano calibro 9" di Fernando di Leo, film livido e rivalutatissimo ma pur sempre da collocarsi tra gli apripista del genere cosiddetto "poliziottesco", quella via casereccia al thriller che si interrompe giusto un passo fuori dal più blasonato recinto del noir di raffinata ascendenza transalpina. D'altronde la Velasca è legata a quella milanesità a portata di mano e non troppo à la page, di cui fu a lungo buon interprete uno dei suoi inquilini più illustri, Gino Bramieri.

Anche quando la cronaca che riguarda la Torre assume toni più drammatici, l'evento mantiene un'eco circoscritta. Successe così, ad esempio, nel 1995, quando Ludwig von Hackwitz, direttore generale della Fondiaria Assicurazioni, si suicidò buttandosi nell'angusto cavedio interno del palazzo dal ventunesimo piano dove abitava con la moglie. A parte qualche dubbio sulla volontarietà della sua morte, il drammatico volo del manager di origine tedesca fu una tragedia privata con qualche contraccolpo emotivo sul mondo degli affari milanesi. Quando però l'italo-svizzero Luigi Fasulo cercò l'edificio adatto per realizzare il suo personalissimo 11 settembre, simulacro di tragedia collettiva che ebbe fragorosa seppur non duratura risonanza, scelse come bersaglio del suo aereo il Pirelli, prolungando così la "primazia drammatica" del grattacielo di Giò Ponti.

Eppure, anche se sempre all'ombra del Pirellone, la Torre Velasca sa raccontare più autenticamente, almeno a chi abbia orecchie più sensibili, il romanzo milanese dell'ultimo mezzo secolo. E mentre l'elegante silhouette in cemento armato del Pirelli sovrasta indisturbata, e per nulla controversa, la Stazione Centrale e stuzzica le pulsioni verticaliste delle archistar che riprogettano lo skyline del capoluogo lombardo, la Torre Velasca rimane saldamente conficcata nell'immaginario visivo dei milanesi. Al punto che a cinquantadue anni dalla sua costruzione fa ancora intrecciare nei forum online sanguigne querelle tra chi la odia e ne sogna l'abbattimento e chi la considera il vero gioiello nel (modesto) campionario dell'architettura milanese del dopoguerra. Senza contare che la Velasca ha suggerito un nome brillante per loro inchiesta ai finanzieri che l'anno scorso indagavano sulle responsabilità della società Mythos, che lì aveva sede, in un gigantesco labirinto di frodi fiscali: "Operazione scacco alla Torre".

 

 

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